Monte Amaro, luogo isolato e selvaggio, forse il più magico della Majella. Paesaggi lunari in estate; impressionante, bianca ed infinita staticità in inverno. Dove sole accecante, venti fortissimi e bufere improvvise contribuiscono a dare tante di quelle sfaccettature che ogni volta è diverso, mutevole, eppur sempre maledettamente affascinante. Non di rado mi capita di leggere, nei racconti di chi ha avuto la fortuna di visitarlo, delle sensazioni intense e contrastanti che riesce a trasmettere. Posso confermare tutto, compreso quel desiderio latente di voler tornare ad asserci, una sorta di mal d'Africa, un appuntamento periodico da non mancare e del quale s'avverte irresistibile richiamo. Personalmente credo di essermene innamorato, tanto è la gioia che provo ogni volta che le mie gambe stanche tornano a calpestare quell'immenso pianoro di sfasciumi di roccia che è il punto più alto della Majella (2793 m).
Benché abbia approfittato di una parentesi simil-primaverile dovuta allo Scirocco e di un manto abbastanza stabilizzato, è la mia prima volta quassù in pieno inverno. Il tentativo di raggiungere il rossiccio igloo metallico situato poco sotto la croce sommitale è purtroppo fallito per due dei rider che m'accompagnavano a causa di un malaugurato strappo muscolare e del tempo irrimediabilmente tiranno. L'ultimo contatto radio con loro è ad un'ora dalla vetta, quando mancano circa trecento metri di dislivello; pochi ma di non trascurabile importanza: è qui che il Monte Amaro tiene alto il suo nome e guarda caso, lo fa ogni volta. In inverno come in estate, tutte le volte che m'è capitato d'avvicinare la cima.
Il debole venticello che ci aveva accompagnato per tutta l'erta della Giumenta Bianca, qui si trasforma in raffiche impetuose che destabilizzano. La neve, fino a poco prima compatta e portante diviene insidiosa. Cinque, forse dieci centimetri di neve ventata coprono uno strato di durissimo ghiaccio. Scivolo una prima volta, mi tiro su aiutandomi con la piccozza, due passi e sprofondo, sono di nuovo in piedi e decido di addolcire i traversi. "Va bene, va bene... ti rispetto" - pronuncio mentalmente - "ma tu fammi salire ok?". Di lì a poco, scivolo nuovamente, perdendo almeno quattro metri di faticosa ascesa. Mi volto indietro per cercare d'avvistare i miei compagni, la loro presenza m'incoraggerebbe, sarebbe d'aiuto, ma non li vedo.
Ancora carponi osservo la superficie liscia sulla neve frutto della mia scivolata e sento d'aver perso la dignità; m'accorgo d'avere, come un cane, la lingua completamente fuori e che il naso non riesce più a filtrare l'aria a sufficienza. "Devo farcela" continuo a dirmi, mentre vento e granella ghiacciata continuano a colpirmi le guance, ormai le uniche parti del mio corpo ancora scoperte. Vedo la croce, è sempre più vicina. Inizio a pregare, mentre la mia progressione si fa lentissima. Vorrei calzare i ramponi, ma come spesso accade desisto erroneamente, convinto di riuscire senza. Oltretutto con questo vento sarebbe rischioso poggiare sulla neve qualsiasi oggetto, ho già perso una bacchetta per una sciocca distrazione e non voglio bissare in mancanza di un adeguato riparo.
Forse le preghiere, forse la volontà di arrivare... fatto sta che d'un tratto un potente e freddo vento da sud inizia a spingermi in alto premendo sullo snowboard ancora in spalla. Non riesco a crederci! mi sembra di volare! abbandono i traversi per proseguire diritto verso l'alto addirittura appoggiandomi indietro per contrastare! Penso a qualcuno, a Qualcuno che mi ha ascoltato, la sensazione è d'avere un forte sostegno soprannaturale. Arrivo sorridente a pochi passi dalla croce, vorrei fotografarla ma mi accorgo che è impossibile! non riesco a fermarmi sulla superficie che adesso è pianeggiante. La tavola ora è una scomoda vela, è di troppo, ma non posso liberarmene senza perderla.
Così, ancor prima di finire chissà dove mi butto a terra a volo d'angelo, riesco ad immortalare il simbolo religioso da dietro dopo aver preso, con piglio da buon fante datato "sesto '87", un "passo di leopardo" di militaresca memoria. Con lo stesso passo guadagno riparo appena al di sotto sul versante opposto ed aggiro lato nord il bivacco per poter accedervi. La porta del provvidenziale rifugio è piccolissima, bassa e stretta. Non riesco ad entrare equipaggiato come sono ed il vento sempre fortissimo m'impedisce di liberarmi della zavorra. Ho un lampo di genio: conficco la piccozza con forza sulla neve ed ancoro, uno alla volta, tutti gli oggetti che mi sono d'impiccio. Finalmente dopo un po' riesco a mettere me e chincaglieria varia al riparo. Le foto non rendono l'idea della situazione ma basta soffermarsi un attimo sulla galaverna che avvolge il rifugio e la croce per capire senza ombra di dubbio quanto sta accadendo.
Sdlangh! alla chiusura della porticina noto un silenzio esagerato e fuori luogo; la neve che copre all'esterno buona parte della costruzione è un ottimo isolante acustico.
"Bene" - penso - "metto in ordine le idee", provo a comunicare con gli amici: dalla radio non ricevo risposta ed il segnale gsm è assente. Sarà un'attesa vana la mia, non arriveranno. Nel mentre, firmo il libro degli ospiti; mi accorgo di essere l'unico oggi e che ieri mi ha preceduto un
tedesco (almeno credo!). Mangio un panino a mani nude in cinque minuti; l'esposizione è sufficiente per farmi perdere sensibilità al mignolo destro. Non so qual è la temperatura all'interno del Pelino ma le nuvole di vapore che si materializzano ad ogni boccone sono significative del freddo che sto sopportando.
Attendo ancora un po' ed ammazzo il tempo concedendomi un'autoscatto che mi trova impreparato, distratto da un rumore che sembra provenire dall'esterno. Purtroppo è solo ghiaccio che cade, degli amici nemmeno l'ombra.
Decido quindi di ripartire scivolando in snowboard, li trovo poco più in basso, in ottima forma ma un po' sconfortati. Hanno già preso la decisione di avviarsi alla piacevole discesa ed io sarò con loro. Non riesco a spiegarmi l'enorme differenza climatica in soli duecento metri, ma ormai è fatta... c'è ottima visibilità ed ancora 1300 metri di discesa sulla rava della Giumenta Bianca!
Surfiamo di tutto, dal ghiaccio alla neve ventata, da un insolito firn di febbraio alla "colla" dell'ultimo tratto. Ma è tutto piacevole quando lo si guadagna a fatica.
Scatto foto a iosa, il mio forse è anche un modo per attenuare i sensi di colpa per essere stato l'unico a completare la session backcountry.
Ci fermiamo di tanto in tanto per dare tregua alle gambe ed eruttare commenti positivi a ruota libera.
Ne approfitto ancora incuriosito per sbirciare quanto sta accadendo in alto, è incredibile... sprazzi di sereno e momenti di nebbia assoluta si susseguono velocemente, il vento in quota deve essere ancora molto forte. In definitiva è inverno legittimo, mentre oltre metà discesa il cinguettio di qualche uccello annuncia una falsa primavera.
Liberiamo i cricchetti davanti al portellone della macchina. C'è molta soddisfazione in ognuno di noi anche se so... che qualcuno ha già un tarlo insediato nell'anfratto più recondito dell' animo e torneremo di nuovo, ne sono fortemente convinto.
Altre uscite sul Monte Amaro: link1, link2